SPECIALE 25 APRILE: La Resistenza delle donne

«Vogliamo che si sappia delle donne partigiane. Siamo sorelle, spose, madri, donne come tutte le donne del mondo. Noi non siamo le vivandiere di un allegro esercito di predoni e di avventurieri, ma dividiamo con loro tutti i disagi. Quando la sera ci avvolgiamo nella nostra coperta sulla paglia della nostra baita, accanto ai nostri fratelli, prima che gli occhi si chiudano nel pesante sonno della stanchezza, i nostri discorsi sono discorsi di tutta la gente libera, amante della libertà». 

Dal giornale clandestino Noi Donne, gennaio 1945

Secondo l’Anpi, sono state circa 35.000 le donne che parteciparono attivamente alla Resistenza armata, altre 20.000 quelle che svolsero funzioni cosiddette di supporto. Solo una piccola parte di queste ha ottenuto riconoscimenti ufficiali. Nonostante il loro contributo fondamentale, infatti, molte donne della Resistenza non hanno mai ricevuto il riconoscimento che meritavano. Eppure i loro nomi dovrebbero essere scritti sui libri di storia.

Erano giovanissime, spesso poco più che adolescenti. Le staffette partigiane hanno rappresentato l’anello invisibile ma essenziale della Resistenza. Senza di loro, i collegamenti tra le brigate, le consegne di messaggi cifrati, armi e viveri sarebbero stati impossibili. Viaggiavano a piedi, in bicicletta, sui treni locali o sui camion dei contadini, rischiando ogni giorno la vita.

Negli ultimi anni, anche grazie alla divulgazione di studi e pubblicazioni, come il lavoro di Benedetta Tobagi, vincitrice del Premio Campiello 2023 con il libro “La Resistenza delle donne”, la memoria delle donne partigiane ha cominciato a ricevere il riconoscimento pubblico che le era stato a lungo negato. Dalle staffette che attraversavano territori pericolosi per consegnare messaggi e armi, alle combattenti che affrontavano direttamente il nemico, il contributo femminile è stato determinante per la liberazione dell'Italia.

Esperienze che sono state in larga parte consegnate al silenzio nei decenni successivi, sminuite o semplificate, se non addirittura ignorate. Ne sono emerse alcune figure, quelle delle future “madri costituenti” e di poche protagoniste famose. Mentre quello delle donne nella Resistenza è un mosaico di storie speciali: storie in cui l’impegno politico femminile si è trovato sempre, in modi anche diversissimi, a fare i conti con pregiudizi e vincoli radicati, e con l’idea di che cosa significhi essere donna, o madre. Questo nuovo racconto collettivo è il cuore del libro sopra citato, La Resistenza delle donne, che in questo 25 aprile 2025 è diventato spettacolo, in scena al Teatro Carcano di Milano. Sul palco, l'autrice  Benedetta Tobagi sarà in scena con Arianna Scommegna, che emergerà dal buio per dare voce ai brani di memorie, diari, lettere e testimonianze. Si parlerà allora di maternage di massa, cioè l’estensione del ruolo materno, non più limitato ai propri figli ma rivolto a tutti coloro che avevano bisogno di aiuto, durante la guerra (concetto definito dalla storica Anna Bravo, in Simboli del materno, Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza); della tradizionale invisibilità femminile che diventò punto di forza tra i partigiani. Ma anche delle malelingue contro “quelle” che vissero la promiscuità in “banda”, ribelli che ribaltarono e sfidarono le convenzioni e i pregiudizi; delle esperienze indicibili della tortura e dello stupro ma anche dell’inedita libertà nel vivere il proprio corpo che la Resistenza diede a molte giovani.

Qui di seguito vi proponiamo un'intervista a Benedetta Tobagi a proposito del suo libro:

Nella stessa direzione, quella cioè di un recupero autentico del ruolo e del vissuto delle donne nella Resistenza, va il progetto “Wire”. Sta per “Women in Resistance” e interessa quattro Paesi: Italia, Spagna, Polonia e Grecia: è stato così creato il Repository on female Resistance. Si tratta di un archivio di biografie della Resistenza femminile in cui le storie personali si intrecciano cone le dinamiche di lungo periodo per fare emergere un’idea di Resistenza plurale.

Una staffetta durante una consegna ai partigiani. Tra i vari ruoli affidati alle donne del movimento di liberazione figura anche quello di aiutare la propaganda: battere a macchina i testi richiesti dai comitati centrali e provvedere alla stampa, occupandosi poi anche della loro distribuzione .


Quella femminile fu una Resistenza fatta di tante pratiche: nascondere una pistola sotto un bambino nella carrozzina, infilare una lettera sotto i vestiti, curare i feriti. Ma anche, come fece Fernanda Wittgens, la prima direttrice donna della Pinacoteca di Brera, salvare prigionieri politici e gli ebrei e mettere in salvo le opere d’arte. Certo le donne partigiane non furono «le vivandiere di un allegro esercito di predoni e di avventurieri», come già si premuravano di ribadire nel 1945 sul foglio clandestino Noi Donne (vedi il testo che abbiamo messo in apertura). Ma furono anche persone normali che, dopo la Liberazione, tornarono spesso alla vita di prima. Come Marcella Ficca, moglie del medico del carcere Regina Coeli di Roma: riuscì a far evadere Sandro Pertini, Giuseppe Saragat e altri cinque prigionieri politici. Poi tornò alla sua vita borghese. Molte donne, soprattutto madri, zie e nonne, non combatterono in prima linea né fecero le staffette, ma sostennero la Resistenza nascondendo partigiani, curando feriti, cucendo divise, ospitando riunioni clandestine. In Emilia-Romagna, ad esempio, il ruolo delle donne nei “ospitali partigiani” fu cruciale. A Gombola, nel modenese, o a Corniglio, nell'Appennino parmense, le donne trasformarono stalle e fienili in luoghi sicuri, rischiando la fucilazione in caso di scoperta.

Tante sono le storie di diverse staffette partigiane “famose”, che a piedi o in bicicletta, rischiavano la vita per fare passare messaggi importanti. Come Tina Anselmi staffetta, a 17 anni, nella brigata Cesare Battisti e dopo la guerra prima donna ministra della Repubblica. O Irma Bandiera, giovane bolognese catturata dai fascisti diventata icona del sacrificio femminile: torturata per giorni, fu uccisa e il suo corpo lasciato in strada come monito. Ancora, Laura Polizzi, nota con il nome di battaglia “Mirka”, che diventò una figura di rilievo nell’ANPI. E Ondina Peteani: considerata “la prima staffetta d’Italia”, deportata ad Auschwitz, che poi si impegnò poi attivamente nel PCI, nel sindacato, nell’ANPI e nei movimenti femminili. A lei è dedicato il libro di Anna di Gianantonio dal titolo È bello vivere liberi (Una vita tra lotta partigiana, deportazione e impegno sociale) Biografia di Ondina Peteani. 
Ma anche Oriana Fallaci che fu staffetta partigiana quando, quindicenne, trasportava armi e messaggi da una parte all’altra dell’Arno. 

Oriana Fallaci staffetta partigiana con la sua bicicletta


Molte donne hanno lasciato un'impronta indelebile nella Resistenza, anche se i loro nomi sono meno noti di quelli prima citati. 
Rosina Frulla iniziò la sua attività partigiana a soli 17 anni, trasportando messaggi e armi in bicicletta nella regione delle Marche. Dopo la guerra, continuò il suo impegno politico e sociale, contribuendo alla fondazione dell'Unione Donne Italiane a Pesaro. 
Impiegata bancaria a Firenze, Maria Luigia Guaita utilizzò la sua posizione per fornire documenti falsi a ebrei e antifascisti. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, divenne una staffetta attiva, collaborando con Radio CORA e organizzando la fuga di importanti esponenti della Resistenza.  
Valentina Guidetti, nome di battaglia "Nadia", fu una staffetta della 26ª Brigata Garibaldi. Il 1º aprile 1945, durante una missione per richiedere rinforzi, fu catturata e brutalmente uccisa dai nazisti. Il suo coraggio le valse la Medaglia d'Argento al Valor Militare postuma.
Amalia Lydia Lalli, conosciuta come "Kira", era una giovane studentessa di ingegneria che si unì alla Brigata Garibaldi "Ugo Muccini". Svolse il ruolo di staffetta e infermiera, partecipando attivamente alle operazioni partigiane. Morì in un'imboscata tedesca il 23 aprile 1945, pochi giorni prima della Liberazione. L'Università di Pisa le ha conferito la laurea ad honorem in ingegneria.

Maria Peron, infermiera dei partigiani dell’Ossola, nell’arco di dodici mesi in montagna divenne una figura quasi salvifica, per la grande abilità nelle cure mediche, per la resistenza fisica e la generosità


Francesca Laura Fabbri Wronowski, nome di battaglia "Kiky", fu membro della brigata Giustizia e Libertà. Partecipò a numerose azioni di guerriglia e contribuì alla liberazione del campo di concentramento di Calvari. Il 25 aprile 1945, giorno della Liberazione, Laura Wronowski entrò a Genova con i suoi compagni partigiani, contribuendo alla liberazione della città. Dopo la guerra, intraprese la carriera giornalistica e continuò a testimoniare la sua esperienza di partigiana.
Alcune donne assunsero ruoli di comando nelle formazioni partigiane. Annita Malavasi, conosciuta come "Laila", dopo essere stata staffetta, divenne comandante di un'unità di staffette del servizio postale nella 144ª Brigata Garibaldi "Antonio Gramsci" in Emilia-Romagna. Dopo la guerra, proseguì il suo impegno nel sindacato e nell'ANPI, Associazione Nazionale Partigiani d'Italia.
Lidia Menapace, scomparsa nel 2020, era nata nel 1924: partecipò alla Resistenza come staffetta per le formazioni cattoliche, nella zona del Verbano. Dopo la guerra, divenne una delle prime donne elette in un Consiglio provinciale in Italia (Bolzano, 1964) e successivamente una figura centrale nel femminismo italiano. Nei suoi scritti ha sempre sottolineato la pluralità della Resistenza femminile, oltre lo stereotipo dell’eroina armata: la Resistenza fu anche cura, educazione, organizzazione e parola.

Norma Parenti, partigiana del raggruppamento “Amiata” della III Brigata Garibaldi dell’area grossetana, che si prodiga insieme al marito Mario Pratelli nella raccolta di fondi, aiuti e armi per le formazioni antifasciste, dando ospitalità ai fuggiaschi ed ex prigionieri alleati. Tradita da uno dei tanti a cui aveva prestato aiuto, sarà uccisa dopo feroci sevizie, a soli 23 anni.

Tra i denominatori comuni delle donne partigiane, possiamo ricordare l’assenza di calcolo rispetto al potere e alle cariche individuali da ricoprire a Liberazione avvenuta, il senso di giustizia di classe e di genere, la modestia che fece apparire naturale non richiedere riconoscimenti per il lavoro politico svolto in circostanze cosí critiche. E infatti sappiamo come andò nel dopoguerra: «Le donne avevano militato fianco a fianco nei Gap partigiani, condiviso per giorni gli stessi spazi dentro cantine umide… », ricorda la giornalista e saggista Mirella Serri in Uomini contro (Longanesi), del 2023. «Eppure furono proprio i compagni i primi ad abbandonarle e tradirle. Quando si trovarono a occupare una poltrona in Parlamento, gli uomini che avevano beneficiato delle capacità delle donne a combattere contro i fascisti anziché fare loro posto abbandonarono gli ideali di eguaglianza di genere e operarono varie forme di ostruzionismo che limitarono la presenza femminile in politica».

A vent’anni dalla fine della guerra, la grande regista Liliana Cavani scelse di dare voce alle protagoniste della nostra Resistenza con La donna nella Resistenza, un documentario che andò in onda sulla Rai nel 1965 e che qui vogliamo riproporvi per non dimenticare. Buona visione e buon 25 aprile!


La Redazione

Sitografia: Quotidiano Nazionale, Io donna, VareseNews, YouTube, Rai Cultura 

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