MIGRAZIONI ITALIANE 5) Una visita al Museo della Migrazione Italiana per capire il fenomeno della Migrazione

Cosa viene in mente, a voi, con il termine “migrazione”?
Io penso subito ai grandi flussi migratori della storia, quelli dovuti a guerre, carestia e povertà: i libri di storia ne sono pieni, praticamente gli ultimi paragrafi della maggior parte dei capitoli.
Eppure, il concetto è ben più ampio e articolato: a definizione di Treccani, la migrazione è “uno spostamento, definitivo o temporaneo, di gruppi di esseri viventi (uomini o animali) da un territorio a un altro, determinati da ragioni varie, ma essenzialmente da necessità di vita. […] Nell’ambito della mobilità, la migrazione si può distinguere in immigrazione ed emigrazione…” poi ancora, si può suddividere in interna/esterna, temporale/definitiva, stagionale/ricorrente, ecc.
Però la questione continuava a non convincermi, così sono ho preso le chiavi e sono uscita di casa: direzione MEI.
Il MEI (Museo nazionale della Migrazione Italiana) è un museo moderno e interattivo, situato alla Commenda di San Giovanni di Prè (luogo che precedentemente ospitava il museo di storia medievale), in zona Principe.
All’ingresso del museo, ti viene consegnato un braccialetto e ti viene chiesto di completare una sorta di passaporto (anche con dati falsi), per collezionare - durante la visita - i diversi “timbri” delle sezioni all’interno della struttura. Esso è suddiviso in 16 aree, che si sviluppano su tre piani.
Il museo è a mio parere molto interessante, specialmente perché moderno e molto coinvolgente. Il braccialetto consegnato all’entrata, infatti, serve per sbloccare i contenuti digitali: video, registrazioni vocali ed animazioni con le quali vengono raccontate proprio le storie delle persone.
Tra i tanti racconti che ho avuto la possibilità di ascoltare all’interno del museo, ce n’è uno che mi ha colpito maggiormente: la storia di Ettore Finzi, un chimico industriale ebreo che migrò in Palestina.
È l’anno antecedente lo scoppio del Secondo conflitto mondiale. La causa della sua emigrazione è l’antisemitismo fascionazista.
Poco tempo prima aveva conosciuto Adelina, una giovane e brillante avvocatessa, che sarà poi la sua compagna di viaggio. Perché, in un mondo “normale”, i due avrebbero potuto costruirsi un futuro ed una famiglia. Ma sono ebrei, ed era il 1938.
Così, il primo aprile del 1939, due “ricchi turisti in viaggio di nozze” s’imbarcarono a Genova, pronti a partire.
La loro speranza era di trovare accoglienza, un lavoro e pace. Quel che trovarono era ben poco rispetto alle aspettative, tuttavia – al contrario di chi era rimasto in Europa – la loro sofferenza era niente.
Raggiunta la Palestina (che all’epoca era ancora sotto il controllo britannico), ebbero due bambini ed Ettore chiese la cittadinanza palestinese, per tagliare poi definitivamente i ponti con l’Italia. Perché, come aveva espresso nel contenuto riprodotto, “la Palestina è uno Stato più libero, dove le persone non sono numeri.” 

Vorrei, inoltre, condividere con voi lettori uno dei pannelli introduttivi: il suo titolo era “Chi parte?”; il contenuto affermava: “i migranti non sono solo una categoria sociologica, semplici comparse in un fenomeno globale, sono innanzi tutto persone. Uomini, donne e bambini. Da soli, in famiglia o con amici e compaesani, i migranti italiani si sono mossi nei secoli con il loro bagaglio di storie, emozioni e vite. Un movimento che continua anche oggi e che proseguirà in futuro.”
I migranti, prima di essere tali, sono persone. Esseri umani proprio come chi nasce e muore nello stesso tempo.
Spesso si tende ad attribuire una connotazione negativa al termine “migrante”, come se fosse un difetto dell’essere umano. Penso che il motivo principale di questa tendenza sia legato al fatto che sentiamo spesso e solo parlare dei barconi carichi di esseri umani che, per cercare di scappare dalla fame, fuggono dal proprio paese, e sbarcano nel nostro. Sbarcano, neanche tutti, e spesso non riescono a sopravvivere nemmeno qui da noi.
Ma i migranti non sono solo la fetta di popolazione che cerca di scappare dalla fame, i migranti sono prima di tutto esseri umani.
Una parte dell’opinione politica è contraria a questo. Ma qual è il problema che causa la migrazione? A tal proposito, vi esporrò la mia opinione più tardi, intanto vi invito a proseguire il nostro viaggio.
Il pannello riportato si trovava nella seconda sezione. La prima proponeva accenni storici della migrazione, risalenti all’epoca medievale e risorgimentale.

I primi che intrapresero l’esperienza migratoria vennero chiamati “apripista” ottocenteschi. Essi diedero il via alle catene migratorie che si svilupparono da quel momento in poi.
La decisione di partire può essere frutto di una necessità collettiva o individuale, oppure imposta dalle circostanze, quali disoccupazione, guerre, fame, persecuzione etnica, religiosa o politica, ecc.

Gli apripista furono il punto di riferimento per parenti e compaesani. La speranza di chi partiva, infatti, era data dalle lettere di amici e parenti, che invitavano a partire senza timori, allegando anche fotografie di abbondanti raccolti pubblicate dai giornali locali, a testimonianza della ricchezza di quella terra lontana.
Invece, le partenze contemporanee sono vissute principalmente con una scelta o un’opportunità da non farsi sfuggire.
 

Un altro rilevante problema del fenomeno migratorio, illustrato nella quarta sezione del museo, era la salute: igiene, nutrizione e sicurezza, infatti, non erano garantiti a chi partiva.
In questa sala, un’avanzata tecnologia ti permetteva di sederti direttamente a tavola, per osservare cosa mangiassero i contadini dell’800: lo scopo dell’animazione è proprio capire come la nutrizione fosse insufficiente per il fabbisogno personale. Inoltre, uno schermo digitale mostrava le diverse malattie che colpivano la popolazione, dovute alla mancanza di medicine e vaccini.

In più, la storia delle migrazioni è amaramente costellata di incidenti e tragedie, causati dalle precarie condizioni di viaggio, dallo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici migranti, dalla mancanza di tutele adeguate e da episodi di violenza razzista.
 

Un’altra sezione del museo era dunque dedicata alla memoria di queste vittime. Era situato in uno spazio aperto, dove - se volgevi lo sguardo in alto – era possibile intravedere il cielo, attraverso una piastra, sulla quale si riconoscevano i continenti geografici, dai quali pendevano delle corde, in memoria degli eventi accaduti.
 
“Il memoriale, un’installazione ambientale accompagnata da una postazione multimediale in costante aggiornamento, vuole ricordare alcune delle più significative tragedie dell’emigrazione.”

Un’altra animazione molto interessante del museo era una sorta di tendone, dentro il quale veniva ripercorso il dibattito politico riguardo la migrazione, riproducendone le opinioni dei maggiori esponenti, da Depretis fino a Mattarella.


Tra la fine dell’800 e la Prima guerra mondiale ha luogo il primo grande flusso migratorio dall’Italia verso l’estero. Da qui, diversi Capi del Governo o suoi Ministri, hanno preso posizioni diverse: dalla necessità di trovare una soluzione ad uno sfruttamento del fenomeno a proprio vantaggio.

Depretis, colui che guidò il primo governo di sinistra della storia d’Italia, per esempio, lottava per una politica che combattesse l’estremismo ideologico e premettesse, di conseguenza, di intraprendere una politica espansiva, volta alla risoluzione del problema migratorio.
Dopo di lui, Crispi e Sonnino (rispettivamente, Capo del Governo e Ministro delle Finanze) sostenevano che la migrazione era un punto di forza dello Stato, che doveva essere utilizzata come strumento per intensificare e rafforzare il colonialismo.
Ancora successivo, Nitti dichiara che la migrazione è stata una fortuna: i cittadini del Sud che emigrarono con la speranza di trovare un lavoro nella nuova terra, salvò la crisi agraria ed il traffico di minori.

Il dibattito sull’emigrazione continua poi nel primo dopoguerra, così come il fenomeno migratorio.

Il regime fascista promosse l’emigrazione interna e verso le colonie africane, ostacolando quella diretta all’estero, vista come un fallimento delle politiche economiche italiane. Mussolini disse: “bene o male che sia, l’emigrazione è una necessità fisiologica del popolo italiano.”

Nel Secondo dopoguerra e negli anni del “boom economico”, il fenomeno della migrazione italiana non si arresta: le mete principali sono i Paesi europei e l’Australia, oltre alla migrazione interna da Sud verso Nord.

Al giorno d'oggi, al termine emigrato/emigrati (e di conseguenza immigrato/immigrati) si è aggiunto il termine "expat", che deriva dalla parola inglese expatriate (letteralmente “espatriato”).
Nel linguaggio comune italiano, "expat" diventa spesso il nuovo modo per indicare semplicemente le migrazioni contemporanee: quelle delle nuove generazioni o quelle mosse non da un bisogno ma da una scelta. Si tratta quindi di un termine in evoluzione, però ricco di implicazioni sociologiche, antropologiche ed economiche: esso può assumere connotati positivi, per esempio indicando una sorta d’identità comune all'estero, o negativi, evidenziando lo status privilegiato a scapito del semplice
"immigrato” (termine solitamente associato a condizioni di bisogno e instabilità).

Arriviamo ora al problema che provoca la migrazione: non lo so.
Secondo me la domanda più appropriata sarebbe chiedersi "perché?" Non “perché esiste la migrazione?”: questo è un fenomeno sociale che ha fondamenti nella struttura stessa della società, e che in essa trova le sue cause. No, io mi chiederei: “Perché la migrazione è ancora oggi un problema? Perché le persone vi prendono una posizione a favore o contro?”
Voglio dire, esistono molti fenomeni di cui non si prende una posizione: anche le rondini emigrano in autunno per tornare in primavera, eppure nessuno si è mai domandato se questo fosse giusto o sbagliato.

Penso che il problema migratorio riguardi l’equilibrio degli Stati: quando un soggetto (o un gruppo di persone) lascia il proprio Paese per arrivare in un altro, porta con sé le proprie capacità ed esperienze, ma soprattutto la propria forza lavoro. In questo modo, vi è un “impoverimento” di uno Stato, a favore di un “arricchimento” dell’altro. E spesso i lavoratori migranti, che possiedono una minore tutela dei propri diritti, vengono assegnati ai lavori meno qualificati e meno pagati.

Insomma, la migrazione è ancora oggi un iceberg da scoprire: chissà se tra qualche anno sarà sciolto anche lui.

Alessia Bertacchini, V A LES


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