IL FIRPO-BUONARROTI AL GLOBAL INCLUSION 2022 - LA RUOTA DELLA CRESCITA


“Senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”
Art. 3 della Costituzione italiana

La guerra e i nazionalismi ricostruiscono le barriere che la globalizzazione voleva abbattere. Ma dove finisce una comunità e ne inizia un’altra? Qual è la linea tra i generi e i sessi, tra l’abilità e la disabilità, tra le periferie e il centro? Il 29 novembre 2022, al Teatro Elfo Puccini, a Milano ha avuto luogo la maratona di Global Inclusion 2022, dedicata al processo di piena realizzazione dei principi dell’art. 3 della Costituzione italiana nei luoghi di lavoro e nel Paese. Passando da una cultura che esclude a una cultura che include, si vuole portare avanti un’opzione etica e una strategia efficace per riavviare la crescita. Solo un ecosistema capace di valorizzare le differenze personali e di pensiero infatti può affrontare le sfide di questi anni. Attraverso un’azione di riconoscimento della pluralità, occorre sostenere l’innovazione delle nostre imprese e preservare le basi che fondano il nostro modello di civiltà, convivenza e democrazia. Bisogna, quindi, girare la ruota della crescita per promuovere la partecipazione, trasformando il lavoro in uno spazio di dialogo e confronto.
Il nostro istituto è stato invitato a partecipare con un gruppo di alunni (Camilla Gemma Celotto, Dario Dispenza, Eleonora Mugnoli della IV B LES, Miriam Riunno, Micheal Vera Villalva, Davide Talucci della V A TUR, Alessia Bertacchini, Ilaria Fameli, Luigi Zilli della V A LES, accompagnati dalle prof.sse Leonelli e Corbo) all'evento Global Inclusion 2022, per testimoniare il punto di vista dei giovani, con i loro dubbi e le loro proposte. Dopo aver ascoltato alcuni interventi, i ragazzi si sono ritrovati in una sala riunioni per uno stimolante brain storming, il cui risultato è stato poi illustrato sul palco del teatro. 

I redattori della V A LES (Liceo Economico Sociale), nei giorni precedenti, avevano affrontato già in classe l'argomento, discutendo tra loro, cercando fonti  e avevano preparato dei testi, partendo dalla proposta di riflessione suggerita da Globan Inclusion 2022:    

"Le imprese nel corso degli ultimi anni sono state chiamate a prendere posizione sui temi sociali.
La democrazia in molti paesi è in crisi e i diritti civili vengono messi in discussione.
Il volto della sostenibilità è oggi costituito da tre dimensioni interdipendenti (sostenibilità ambientale, sociale e economica). Alla luce di uno scenario sempre più complesso e in forte cambiamento, quale ruolo dovrebbero giocare le imprese e i brand per la difesa della democrazia e dei diritti civili?"

Di seguito pubblichiamo i testi dei tre redattori della V A LES che sono stati scelti in rappresentanza della loro classe. Al termine, potrete vedere i video dei due interventi sul palco e un reel della giornata.

Definiamo “sostenibilità”: secondo Treccani, condizione di uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri.
Successivamente, il concetto iniziale del termine subì una profonda evoluzione che, partendo da una visione esclusivamente di ambito ambientale, è approdato verso un significato più globale, che tenesse conto anche di altre dimensioni. In definitiva, Treccani definisce “sostenibilità” un benessere (ambientale, sociale ed economico) costante, e preferibilmente crescente, e la prospettiva di lasciare alle generazioni future una qualità della vita non inferiore a quella attuale.
Dunque i tre pilastri della sostenibilità si occupano dello sfruttamento delle risorse naturali (sostenibilità ambientale), della distribuzione delle risorse economiche (sostenibilità economica) e della garanzia del benessere umano (sostenibilità sociale). Anche se apparentemente non sembrerebbe, questi tre nuclei sono strettamente legati fra loro. Infatti è grazie all’incontro fra essi che otteniamo uno sviluppo sostenibile.
Soprattutto negli ultimi anni, la sostenibilità è diventata una tematica particolarmente discussa. Però, nonostante i forti segnali di cedimento da parte del pianeta, economia e società non possono fermare il loro sviluppo e progresso per venire incontro ai gravissimi problemi che stiamo affrontando. Questo è il motivo per cui non si può parlare unicamente di sostenibilità ambientale, ma bisogna ampliare il ragionamento includendo anche la sfera economica e quella sociale.
Un’indagine condotta dall’IBM Institute for Business Value (IBV) dimostra come la pandemia da Covid-19 ha aumentato l’attenzione delle persone rispetto al tema della sostenibilità. La ricerca, svolta a marzo 2021, ha raccolto l’opinione di oltre 14mila adulti provenienti da nove diversi Paesi. Il sondaggio ha ottenuto un risultato significativamente diverso a seconda dell’area geografica: solo il 51% dei consumatori americani ha affermato di preoccupart si della sostenibilità del loro stile di vita, contro il 73% degli intervistati degli altri Stati.
Lo studio ha centrato anche il rapporto tra sostenibilità e lavoro, evidenziando il punto di vista dei lavoratori rispetto al posto di lavoro. I dati riportano che il 71% delle persone in cerca di occupazione afferma di essere maggiormente attratto da aziende attente alla sostenibilità ambientale e quasi la metà degli intervistati accetterebbe uno stipendio inferiore per lavorare per tali organizzazioni. Risulta anche che la sostenibilità ricopre un ruolo sempre più centrale nelle scelte dei consumatori: il 55% di essi si informa sulla politica sostenibile delle aziende prima dell’acquisto, il 22% in più rispetto ai dati riportati dall’indagine svolta prima della pandemia.
Murray Simpson, leader di IBM Global, ha affermato “il sondaggio mostra come le persone sono sempre più preoccupate per la crisi globale, osservando che le imprese in diversi settori stanno cercando di intraprendere azioni urgenti per soddisfare la aspettative di clienti e investitori e gestire le sfide di sostenibilità”.
Un altro esempio dell’importanza di come la sostenibilità di un’azienda influisca sui
suoi dipendenti, si è verificato meno di sei mesi fa.
Giugno è il mese del pride e durante i numerosi cortei, specialmente quelli più rappresentativi, come nelle città di Roma o Milano, hanno sfilato anche numerosi brand di grandi multinazionali e di piccole aziende. La motivazione di questo fatto parte da un concetto base enunciato da Eleanor Roosevelt, primo presidente della Commissione per i Diritti Umani: quanto è importante che i diritti umani siano presenti negli ambiti in cui viviamo? Il luogo di lavoro, come prima di esso la scuola, è il posto in cui trascorriamo la maggior parte del tempo, circa ⅓ della nostra esistenza. È necessario dunque che i lavoratori possano sentirsi liberi all’interno del proprio posto di lavoro.
Un'indagine svolta da Vodafone e che ha coinvolto oltre 3000 giovani appartenenti alla comunità LGBT* in 15 diversi paesi, ha riportato che il 41% di essi non dichiara il proprio orientamento sessuale al primo impiego. I motivi sono molteplici, ma i principali riguardano la discriminazione da parte dei colleghi e la possibilità che questo fattore abbia ripercussioni negative sulla propria carriera.
L’intenzione delle aziende, che hanno partecipato ai pride con i propri dipendenti e hanno mostrato sostegno nei confronti di questa tematica, è appunto permettere ai propri lavoratori di sentirsi realizzati e a proprio agio sul luogo di lavoro.
Il Gruppo Sanpellegrino è un autentico esempio di sostenibilità a 360°.
Attraverso il Bilancio di Sostenibilità 2021, il Gruppo illustra come far fronte al rapporto tra qualità del prodotto e impatto ambientale delle proprie attività: la loro politica infatti comprende l’utilizzo di una rete logistica sostenibile e di packaging riciclabile, l'efficienza dei sistemi produttivi e l’applicazione di progetti di ricerca scientifica per salvaguardare le risorse e la biodiversità. Il bilancio del 2022 mostra un progresso sia dal punto di vista ambientale (con il -22% di consumo d’acqua rispetto al 2020), sia dal punto di vista sociale. Uno tra i principi “irrinunciabili” per continuare a prosperare come azienda è appunto l’attenzione alle persone, considerate il più grande patrimonio del Gruppo Sanpellegrino: cuore, forza e passione dell’azienda stessa.
Essa si impegna a promuovere un ambiente di lavoro stimolante e aperto alle diversità, garantendo l'uguaglianza sul lavoro e le pari opportunità, e applicando tolleranza zero verso qualsiasi tipo di discriminazione, violenza e molestia sul lavoro.
Il gruppo, rapportando alla tutela e alla salvaguardia delle fonti il rispetto e la valorizzazione delle persone e delle comunità con cui opera, presenta un modello di attività “vivibile”, ovvero sostenibile sia dal punto di vista ambientale che da quello sociale.
Inoltre l’azienda si impegna a dedicare una particolare attenzione anche ai consumatori, promuovendo un’offerta sana e sostenibile e curandosi della qualità dei componenti dei suoi prodotti.
In conclusione, un’impresa sostenibile si può definire tale se agisce nei tre campi trattati (ambiente, economia, società) e permette una crescita dell’umanità.

Alessia Bertacchini, V A LES

Su quale ruolo abbiano le imprese al giorno d’oggi per la difesa dei diritti civili e la democrazia si discute molto; infatti, nel 21° secolo, le più grandi multinazionali possiedono un così vasto potere mediatico che le rende capaci di veicolare messaggi anche di maggiore impatto rispetto a quanto possa fare lo Stato.
Tuttavia, soprattutto per quanto riguarda le tematiche di inclusione, spesso i maggiori brand tendono a sfruttare le campagne di sensibilizzazione per ricavarne maggior profitto e a volte, come nel caso di Black Lives Matter, è la stessa campagna a trasformarsi in un brand per monetizzare sulle proteste.
In fin dei conti, però, non ci si può aspettare niente di diverso dalle imprese, in quanto aziende di produzione a scopo di lucro; ogni mossa che pare a favore di tematiche sensibili, nella maggior parte dei casi vela una scelta di marketing finalizzata a trarne una possibile rendita economica.
A questo punto ci si potrebbe chiedere se non sia il caso di lasciare che le aziende non-profit si facciano motrici di queste campagne di sensibilizzazione, e però, sebbene da un lato questo renda la causa più nobile eticamente, purtroppo l’impatto mediatico che possiedono non è nulla se paragonato ai grandi brand moderni, potere che nemmeno i governi detengono.
Su tutti, ciò che rende così influenti le imprese moderne è il loro utilizzo dei mezzi di comunicazione: sfruttando maggiormente l’advertising online, rispetto ai metodi tradizionali offline (come le inserzioni per strada o sui giornali, che mirano ad un target più anziano), le aziende acquisiscono la capacità di aumentare progressivamente la loro scalabilità e di rivolgersi a un pubblico più ampio o selezionato.
Ormai i social hanno sovvertito il più tipico e semplice “passaparola”, difatti basta che un video dov’è promosso un prodotto diventi virale, per ampliare notevolmente la mole di traffico sui principali canali dell’azienda produttrice, e di conseguenza aumentando le vendite del prodotto stesso. Adesso i media hanno più che mai il potere gestionale su ciò che va di moda o meno, persino a livello internazionale.
Non a caso, i migliori marketing manager monitorano costantemente i trend per introdurli nei funnel d’acquisto (il funnel è un modello teorico che disegna il viaggio ipotetico di un contatto da estraneo a cliente) delle imprese; purtroppo però questo accade anche per tematiche sensibili come ad esempio la transizione ecologica, la gender equality e l’inclusione, perdendo così completamente il significato della causa, a favore di un potenziale aumento delle vendite dovuto ad una maggiore fidelizzazione con la clientela.
Negli ultimi anni persino figure professionali nel panorama politico stanno comprendendo il potenziale dei media per una più ampia diffusione di informazioni. Proprio in base a questo, mi sorge spontaneo pensare a quanto il rapporto Stato-Azienda sia cambiato negli anni.
Il famoso economista Keynes, quasi 100 anni fa ormai, attuò una vera e propria rivoluzione per i tempi, dando il potere allo Stato di aiutare l’economia e le imprese in difficoltà.
Ai giorni d’oggi però, sta accadendo l’esatto contrario; le aziende veicolano messaggi sociali per sostenere lo Stato nella promozione di iniziative nobili come inclusione sociale, unioni civili, utilizzo di energie rinnovabili ecc…
Il problema però è che lo Stato, a differenza delle imprese, dispone del vero mezzo che permette di passare dalle parole ai fatti: le leggi; e sono state proprio le leggi a permettere nel 1933 di risolvere la grave crisi economica degli Stati Uniti.
A fronte di questo quindi, non avendo potere legislativo, ciò che resta alle aziende è solamente la mobilitazione delle masse, soprattutto in paesi dove i diritti e la democrazia sono distanti dalla realtà effettiva di chi ci vive.
Anche in questo caso però, il rischio che le imprese ne escano “con le mani pulite e la coscienza sporca” è molto alto. Per citare un esempio, è facile produrre magliette a supporto della comunità LGBTQ (magari sfruttando manodopera infantile a basso prezzo o distruggendo l’ecosistema circostante) senza però applicarsi concretamente nella lotta alla discriminazione.
Ci sono imprese, invece, che si fanno portavoce della parità di genere, e poi a conti fatti in azienda il numero di donne assunte, o che ricoprono ruoli di amministrazione, è decisamente inferiore rispetto al numero degli uomini.
Queste campagne pubblicitarie sono talmente conosciute che negli ultimi anni è stato coniato un particolare neologismo inglese: Greenwashing, ovvero ecologismo di facciata o marketing ambientale fuorviante.
Questo fenomeno è talmente conosciuto a livello mondiale che la commissione europea gli riserva persino una normativa specifica, ed è così frequente vederlo perché, secondo alcuni recenti studi, sia i Millennials che la più recente Generazione Z sono più portati ad acquistare beni che ritengono sostenibili o “etici”. Purtroppo ci sono numerosissimi esempi di Greenwashing, come il caso Dieselgate di Volkswagen nel 2015 quando, nel mezzo di una campagna pubblicitaria dove l'azienda proclamava la natura “green” delle sue vetture, si trovò costretta ad ammettere di aver dichiarato falsi test di emissione dei gas nocivi, con l’utilizzo di un software che registrava dati falsati a favore della casa produttrice.
O ancora il caso di Nestlé che, sebbene avesse dichiarato, nel 2018, un futuro completamente “green” entro il 2025, attraverso l’utilizzo di imballaggi e packaging 100% riciclabili, nel 2020 fu dichiarata l’azienda più inquinante con materiale plastico al mondo per la terza volta consecutiva.
Sono esempi di Greenwashing anche coloro che utilizzano un linguaggio fuorviante e volontariamente persuasivo parlando di sostenibilità, come i grandi brand di Fast Fashion; uno su tutti H&M, uno dei marchi più conosciuti al mondo per ciò che concerne moda e abbigliamento, che fu coinvolto in un indagine condotta dall’ NCA (Norwegian Consumer Authority), proprio per mettere in discussione la comunicazione coi clienti nel caso della loro collezione “H&M Conscious”, dichiaratamente green.
A fronte di tutto questo, come si può allora convertire il mezzo più potente che la società dispone per manifestare (le imprese), in qualcosa di effettivamente utile per la causa di cui si fa carico?
L’idea migliore sarebbe quella di motivare aziende non-profit con delle donazioni, e allo stesso tempo organizzare eventi non a scopo di lucro, cambiando il modo in cui le aziende riescono ad ottenere maggiore profitto; non più attraverso la vendita di un prodotto e/o un servizio, ma grazie alla pubblicità positiva che, semplicemente il gesto di mettersi in gioco a favore di una causa nobile, può apportare loro. In questo modo è garantito un guadagno sia sul lato etico che su quello economico, senza apparire ipocriti e finalizzare il tutto alla sola rendita.

“Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che assomigliate a sepolcri imbiancati: all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume. Così anche voi: all’esterno apparite giusti davanti alla gente, ma dentro siete pieni di ipocrisia e di iniquità.” Gesù, Vangelo di Matteo 23,27-32

Ilaria Fameli, V A LES

Il concetto fondamentale in questi primi anni del XXI secolo è quello di sostenibilità nelle sue tre dimensioni principali: ambientale, economica e sociale. Per sostenibilità sociale si intende il complesso di azioni volte a raggiungere l’equità nella società, attraverso l’eliminazione della povertà e la realizzazione di condizioni di dignità di base per la vita di ogni uomo, con l’obbiettivo di costruire una società migliore. L'obiettivo della sostenibilità ambientale è quello di tenere in equilibrio l’ecosistema naturale mondiale attraverso la lotta all’inquinamento e alla riduzione delle emissioni e della produzione di rifiuti. Quella economica invece richiede uno sviluppo basato su un impiego razionale delle risorse naturali, in modo da soddisfare i bisogni della generazione presente senza però compromettere quelli della generazione futura. L’interesse e la partecipazione della popolazione, in grado di smuovere e di far attivare le grandi imprese attraverso il dissenso popolare, sono fattori fondamentali per il raggiungimento e l’ottenimento di tali obiettivi.
Al giorno d’oggi Internet e la globalizzazione stessa sono riusciti a sensibilizzare buona parte del primo mondo che, con una più profonda consapevolezza, pretende e richiede alle imprese globali prese di posizioni riguardanti la sostenibilità, la politica e i diritti civili, sfruttando l’immenso potere che le masse popolari possiedono su queste attività economiche produttive.
Soltanto nel 2013 si verificò il crollo di un’industria tessile in Bangladesh che uccise più di mille lavoratori, ferendone invece il doppio. L’evento, che prende il nome di disastro di Rana Plaza, ebbe, soprattutto nel Regno Unito, una grande rilevanza grazie ai media, che provocarono l’indignazione popolare. In seguito allo sviluppo di una più profonda consapevolezza da parte dei consumatori riguardante le condizioni di lavoro degli operai tessili, un numero di brand come H&M e Primark hanno adottato politiche in grado di garantire condizioni più sicure per i loro lavoratori.
Sfortunatamente però non è sempre stato così. Storicamente, le imprese si sono sottratte alla presa di posizioni politiche, preferendo la conservazione delle relazioni commerciali intraprese con gli stati di tipo autoritario. Tornando indietro nel tempo alla Seconda Guerra Mondiale, imprese del calibro di Hugo Boss o di Volkswagen, tuttora esistenti, produssero rispettivamente uniformi e veicoli ai nazisti — quest’ultima con la manodopera degli schiavi che arrivavano direttamente da Auschwitz — favorendo di fatto il mantenimento dei rapporti con la Germania nazista alla cosiddetta sostenibilità sociale.
Decisamente più recente e contemporanea a noi è la complicata situazione scaturita lo scorso 24 febbraio, in seguito all’invasione — o come piace chiamarla a Putin “operazione militare speciale volta alla denazificazione e alla smilitarizzazione” — dell’Ucraina da parte delle forze russe su ordine del Cremlino. Da allora, molti Stati hanno preso la decisione di sanzionare la Russia, mentre centinaia di aziende hanno sospeso i loro servizi in segno di contrarietà alla guerra; prime tra tutte i grandi marchi della moda come Chanel, Gucci e Bottega Veneta, che hanno chiuso tutte le loro boutique in territorio russo e sospeso persino l’e-commerce, azioni che hanno fatto scaturire le proteste delle indignate influencer. Caso di particolare risonanza mediatica è invece quello della catena di fast-food statunitense McDonald’s che, dopo l’abbandono dei suoi ristoranti nella terra degli zar subito dopo lo scoppio del conflitto, è stata sostituita a giugno da “Vuksno i tochka”, catena pressoché identica all'originale ma con un altro nome. Nonostante ciò, sono scoppiate nelle grandi città russe delle piccole proteste perfino a causa di questo mediocre cambiamento.Le sanzioni economiche però sono un’arma a doppio taglio: la multinazionale russa Gazprom, controllata dalla Federazione Russa, è la pedina fondamentale in questa guerra economica. L’azienda, la più quotata in borsa per quanto riguarda le vendite del gas naturale, è il mezzo delle minacce prediletto dal Cremlino; Putin ha avvertito infatti che non arriverà gas ai paesi che applicheranno un price cap — il tetto al prezzo, di cui Stati Uniti e Unione Europea stanno discutendo — in previsione di un inverno gelido.
Concetto importante in questa guerra è quello di tutela della popolazione, in quanto il ritiro dal mercato russo di molte imprese — e quindi dei loro prodotti e servizi — potrebbe provocare disagi anche gravi alla popolazione russa, la cui maggioranza preferisce scappare dal paese piuttosto che combattere in una guerra non voluta.
La presa di posizione delle imprese è ormai indispensabile alla luce dei continui cambiamenti e alla complessità della politica internazionale; esse, sotto la pressione del popolo, hanno la facoltà e il dovere di schierarsi a favore della democrazia e dei diritti civili — anche se ciò si traducesse in una perdita di introiti da parte delle aziende — ponendosi però in una posizione tale da poter garantire ai cittadini colpevoli di essere sottomessi a un governo autoritario, la certezza di uno stile di vita dignitoso.

Luigi Zilli, V A LES

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